Trattare con la morte

non può essere imparato in teoria

 

Beatrice Schlag: Den Umgang mit dem Tod kann man nicht theoretisch lernen
. Weltwoche 5 / 2003

Traduzione: D. De Leonardis


 

Come parlano della morte i medici con i loro pazienti?

Riassunto di un medico bernese sull'accompagnamento di moribondi, sulla trasmissione di notizie funesti e sul confronto con i familiari. Protocollo di un'intervista.

 

Nel mio studio medico non mi è mai capitato un ammalato in fin di vita che volesse parlare con me della morte. Le persone desiderano unicamente sapere se avranno dei dolori, se alla fine soffocheranno. Queste sono le domande che necessitano una risposta. Bisogna captare il momento giusto. Spesso vengono pazienti dei quali sento che questa volta vogliono chiedere, e poi non lo fanno comunque. Non lo si può anticipare. Se il paziente non fa la domanda, significa che questa non esiste. E' il paziente che ci dice di essersi occupato della morte, oppure non ce lo dice. Pur se il paziente s'inganna fino alla fine: ho il dovere di costringerlo alla verità? Sono autorizzato a dire a qualcuno: "Sia realista, lei morirà nelle prossime 3 o 4 settimane" Io lo trovo un'impertinenza. Questo modo di agire faciliterebbe il compito unicamente al medico.

         Quando un paziente con una malattia mortale, p.es. un cancro con metastasi, si presenta da me nell'ambulatorio, generalmente sa già di essere ammalato. PoichÈ in occasione della visita, quando sospetto che si possa trattare di un cancro, lo mando subito all'ospedale (per maggiori accertamenti). Lì viene fatta la diagnosi con il "verdetto" definitivo dallo specialista. Il paziente viene chiamato nello studio, a volte lo accompagna la sua famiglia, e gli viene comunicata la diagnosi in modo possibilmente neutro, magari un po' più negativa onde evitare sbagli nelle previsioni. Con il pessimismo, il medico si autoprotegge fino ad un certo punto. Io non potrei essere oncologo. Come oncologo devi proteggerti, tra tutti i pazienti che muoiono. Ma in quanto paziente non vorrei andare da un medico che mi direbbe: "Senta, lei è spacciato, metta a posto le sue cose e torni se/quando ha bisogno di antidolorifici. E se dovesse avere dei problemi, chiami il pronto soccorso".

         E' una catastrofe. Ma un comportamento del genere, le istituzioni se lo possono permettere. Gli ospedali non dipendono dai pazienti. Là dove bisogna pensare in termini economici, non ci si può permettere questo. Ma è altresì il lato emozionale, che spesso manca negl'ospedali. Io vedo i miei pazienti per anni quindi si costruisce un certo legame. Attualmente vi sono due pazienti nel mio studio con diagnosi definitiva di cancro, un uomo ed una donna, nessuno dei due ha cinquant'anni. E' interessante osservare come si comportino in modo diverso. La donna è da tanto tempo mia paziente, una sportiva molto cosciente della sua salute, che non ha mai fumato. Le sue analisi, un anno fa, dimostravano uno stato di salute perfetto. Ora ha un cancro ai polmoni con metastasi. E' venuta direttamente dall'ospedale nel mio studio con il suo marito. In questi casi, altri pazienti devono attendere. In uno studio di medicina generale, l'80% dei pazienti sono casi banali. Il cancro non è tra questi. La donna era completamente a pezzi. Gli specialisti le avevano pronosticato da tre a sei mesi di vita. Una prognosi del genere è orrenda. Non si può vivere così, senza speranza.

         Inoltre, le prognosi, troppo spesso sono errate. L'inverno scorso è morta una mia paziente, alla quale avevano pure dato ancora tre mesi. Era poi vissuta ancora per due anni, aveva persino fatto un viaggio in Lapponia. Conosceva la sua diagnosi, ma non se ne voleva interessare. L'ho vista regolarmente, le ho controllato la pressione, auscultato i polmoni, ma non ne abbiamo mai parlato, lei non lo desiderava. Era un continuo andirivieni, un continuo schivare/evitare.

         Questa donna non mi è stata particolarmente simpatica come paziente, era arrogante con il personale, molto difficile, pensava ad ogni consultazione che la si volesse fregare. Dopo la diagnosi di cancro è migliorata, ma la relazione rimase superficiale. Senza simpatia non posso nemmeno provare empatia. Per un medico, in certi casi la superficialità è meglio, molto accettabile e del tutto gradevole, se il termine mi è permesso nel concetto. Preoccupa molto meno.

         Se la sorte di un paziente ti coinvolge o no, dipende molto dal grado di simpatia. Ma il modo come questa donna abbia ignorato totalmente la morte, mi ha affascinato. Ciò necessita una forza che non è assolutamente condannabile. Non vedo cosa le sarebbe servito trovarsi settimanalmente con altri pazienti malati di cancro, per parlare.

         Quando i malati terminali si recano ai consultori, in seguito sono molto abbacchiati. E' come masticare un cadavere. Mi hanno sempre molto intrigati i temi come la pena di morte, i combattenti della resistenza o gli attentatori suicida. A casa parlo molto della morte, anche con i miei figli, se chiedono. Ma quando si tratta della mia propria morte, non ho bisogno di anticipare il lutto. Bisogna essere in lutto quando muore qualcun altro. Visto da questo lato, questa donna non ha poi scelto il modo più sbagliato.

         Io non ho paura di parlare con i malati terminali. Apprensione è la parola più adatta. E' come respirare profondamente, prima. Bisogna essere aperti e sentire le vibrazioni nella stanza, non si può creare un muro. Chi schiva la prima volta schiverà sempre. Si risente il proprio stress solo dopo, quando ci si arrabbia per delle piccolezze. Io faccio vedere subito delle cifre. Quando la signora con il cancro ai polmoni si presentò nello studio accompagnata da suo marito, le dissi che c'è la possibilità dal 5 al 10 percento di un miglioramento, di un ritardo oppure una di guarigione. Le cifre sono relativamente giuste. Ma mi rendo conto che danno immediatamente forza. E' uguale se gli altri medici pensano di me che creo delle speranze ingiustificate. Non creo speranze sbagliate, tengo unicamente viva la speranza. E poi dico sempre, dipende dalla combattività, anche se ciò non allunga la durata della vita. Colloqui di questo genere non si svolgono secondo un ordine preciso, parliamo in un senso rotatorio, tutto viene discusso varie volte. Non parlo con premura. Cerco di diminuire lo stress e di interessarmi a tutto ciò che vogliono sapere.

         Naturalmente non voglio che la paziente corri di medico in medico per avere la prescrizione di una terapia qualsiasi. Esistono tanti ciarlatani che danno speranza, solo per far soldi. Cogliere questo è il mio compito di medico di famiglia. Ma lottare e vedere cosa può ricevere dove, quello lo deve fare la paziente in ogni caso. Le faccio notare metodi alternativi, pur non essendo medico alternativo, mostro come può informarsi in Internet. Se p.es. s'interessa per il prodotto di vischio degli antropologi, glielo ordino. Spiego che un tumore si decompone e libera delle sostanze aggressive, e prescrivo sempre anche delle vitamine. Non serve a niente contro il cancro, ma ci si può aggrappare.

         La questione a sapere se la paziente seguirà una chemioterapia non è ancora definita. Quando si tratta di consigli per la terapia, posso guidare un poco, spiegando cosa rendono le terapie. Ci sono pazienti che vogliono decidere tutto da soli, in questi casi mi tengo completamente in disparte. Altri lasciano tutte le decisioni al medico. E poi ci sono quelli che si piegano alle pressioni e alle speranze dei familiari. Questi sono i casi più difficili. Quando lavorai ancora in ospedale mi chiesi spesso, come mai pretendono tutto questo dal paziente? La paziente del cancro ai polmoni, probabilmente seguirà una chemioterapia e in questo caso sostengo la scelta. Non guarirà ma probabilmente in seguito si sentirà meglio fisicamente.

         Il suo marito non sta male, forse non ha ancora realizzato. Una sola volta aveva l'occhio bagnato. Se il congiunto di un paziente gravemente malato sembra più o meno forte, lo ignoro. A volte non sono molto diplomatico nella comunicazione non verbale. Mi concentro pienamente sul paziente, pur sapendo che anche il partner ha un grossissimo problema. Ma reagisco unicamente se si manifesta. Qualche volta i familiari risentono ciò come sgradevole. Ma ci sono ogni tanto delle cose che vanno "sub-ottimale". Ora, il trattamento di questa donna prosegue. E' nell'ingranaggio: ospedale, clinica universitaria, ambulatorio.

         Il secondo paziente ha un cancro allo stomaco. L'ospedale gli ha sconsigliato la chemioterapia, poichÈ sarebbe peggiorata la sua qualità della vita. Era grato che gli avessero detto la verità con franchezza. Questa è la difficoltà, non si sa mai cos'è giusto per chi. Non appena arrivato da me, mi disse chiaramente che, arrivato il momento, non voleva andare da un'organizzazione del tipo "Exit" o "Dignitas". Non voleva nessuno che gli facesse la puntura. Voleva mantenere il suo diritto di decisione e mi chiese se gli potevo procurare i mezzi necessari.

         Gliel'ho reso possibile, anche se per me era molto difficile. In Svizzera, l'assistenza al suicidio è autorizzato, se non vi sono degl'interessi finanziari in gioco. Per questa ragione ho pagato io i prodotti, affinchÈ nessuno mi possa dire che guadagno con la morte dei pazienti. Se gli avessi fatto una ricetta, ogni farmacista l'avrebbe subito capito. Gli diedi del sodio-pentobarbitolo, 15 grammi, si tratta della dosi che dà anche "Exit". Costa ca. 15 franchi. E' solubile e si beve. Prima si prende un prodotto per sopprimere il vomito. Si muore per arresto respiratorio. Gli dissi unicamente: "Ci saranno dei giorni, nei quali lei non starà per niente male e altri dove sarà più dura, ma non fisicamente. Non lo faccia in uno di questi giorni, seguiranno dei migliori." Me lo ha promesso. Lo trovavo notevole. Se io ricevessi una diagnosi di questo genere, posso immaginarmi di reagire nello stesso modo. Anche se non ce lo si può immaginare.

         Al primo paziente che mi chiese una dose mortale gliela negai, e finì con una tragedia. Alla fine era paralizzato e non poteva più mangiare. Il suo figlio mi chiese la dose, poichÈ il proprio medico di famiglia non gliela voleva dare. Mi addussi con la scusa che suo padre non era mai stato mio paziente. La famiglia si rivolse poi ad un'associazione per l'aiuto al suicidio, e tutto andò male, fu un suicidio guidato malissimo. L'uomo non smise di respirare. Ai familiari esterrefatti fu proposto di mettergli un sacchetto di plastica in testa. In altri casi queste associazioni erano molto brave, non voglio generalizzare. Ma in seguito mi sono rimproverato.

         La morte ha una grande intimità. L'unica parola che mi viene in mente a questo proposito è "rispetto". Devi avere rispetto quando vai da un morto, non importa in che fase si trovi. Non posso intellettualizzarlo. Potrei anche dargli un calcio, tanto non sente niente. Ma se non rispetti i morti, non rispetti nemmeno i vivi. Certi medici legano subito il mento al morto, ma c'è tempo, la rigidità cadaverica non viene così in fretta. Io trovo questi sottogola tremendi. Come prima cosa io gli chiudo gli occhi e cerco di sdraiarlo decentemente.

         Il morto più impressionante lo vidi quando fui medico assistente in ospedale. Alle tre del mattino lo avevamo rianimato per tre volte. All'ultimo arresto cardiaco provammo invano di defibrillare per altre due volte. Stavamo rimettendo tutto a posto quando all'improvviso si raddrizzò, emise un suono profondo e si accasciò. Sembrava che qualcuno gli togliesse l'anima dal corpo. Non ho mai più rivisto una cosa del genere. Eravamo tutti lì e lo fissammo. Era molto bello. Probabilmente si potrebbe spiegare questo fenomeno. Ma non sentimmo la necessità di distanziarcene con dei ragionamenti scientifici.

         La maggior parte delle persone non muore pacificamente. Vi è un'angoscia tremenda. Non c'entra niente con la malattia, è la pura paura della morte, dell'ignoto. Non fa differenza se qualcuno è credente oppure no. E' tremendo quando i familiari diventano impazienti. Può senz'altro capitare che dicano "dai, è quasi ora".

         Quando ero medico assistente, c'erano grandi discussioni al riguardo delle infusioni. Io ero del parere che prolungassero inutilmente il processo mortale. La direzione invece diceva che non si poteva far morire qualcuno di sete, anche se questo non vuole più bere. A pensare che non esiste nessun mammifero che beve quando sta morendo. I reni smettono di funzionare e le sostanze emesse dai stessi hanno qualcosa di antidolorifico, ciò che cambia anche la percezione e ti prepara alla partenza. Io trovai questo cambio tra morfina ed infusione irragionevole. Allora si cominciò a cambiare. Durante il processo della morte si entra sempre in una fase di disidratazione, questo cambia la percezione. Non si può morire con una percezione perfetta, è tremendo.

         Non c'è quasi nessun momento nel quale provo schifo. Lo schifo ti limita, ti rende più piccolo. Ma ci si può abituare. Ciononostante ti tocca fortemente un cadavere che è stato disperso da parecchi giorni, mangiato dai vermi, puzzolente. Per fortuna riesco a "spegnere" il mio odorato. Ma l'emozione, il lutto immediato dei familiari, una famiglia sorpresa dalla morte, questo sì mi tange molto. Pochi giorni fa fui chiamato per un suicidio, il figlio 21enne di una famiglia apparentemente intatta si era sparato. Non c'è niente da spiegare. Ti puoi unicamente avvicinare con immenso rispetto, alla salma ed alla famiglia.

         Normalmente i familiari non sono presenti quando visito il morto. Quasi sempre devo tagliare i vestiti, specialmente quando il cadavere è già rigido. Un tempo evitai di tagliare i vestiti, ma spesso così facendo si ferisce il morto. Per me è poi importante coprire le sue nudità. A volte lo copro completamente, a volte solo a metà. Non è obbligatorio coprire completamente qualcuno che si è sparato in testa.

         Una domenica pomeriggio fui chiamato da una famiglia dove la moglie, fine cinquanta, non si era più svegliata. Il suo marito s'era alzato pian piano pensando che sua moglie doveva riposare bene. Quando, verso le undici non era ancora alzata, andò in camera e vide che era morta. Medico d'urgenza, rianimazione, tutto troppo tardi. In questi casi non sto in giro ad aspettare che vengano le domande. Inizio semplicemente a parlare. Spiego che la donna è morta per arresto cardiaco e che non ha sofferto.

         E' importante che lo sappiano. Poi affiorano subito i sensi di colpa, e se il marito l'avesse svegliata prima? In questo momento basterebbe una mia domanda distratta del tipo "non ha mai notato come sua moglie fosse più debole negl'ultimi tempi?" Questo sarebbe tremendo per la famiglia.

         Mi rifaccio da lontano e racconto in grandi linee ciò che penso e cioè che la donna è morta durante la notte. Non c'è nessuna ragione per nessuno di sentirsi colpevole. Forse si sarebbe potuta salvare se ci si fosse accorto immediatamente dell'arresto cardiaco, se la famiglia avesse avuto in casa il defibrillatore e avesse praticato la rianimazione subito e se l'ambulanza fosse arrivata dopo dieci minuti. Ma chi tiene il defibrillatore a casa? Chi si sveglia proprio in quell'istante? Ecco che non ne dico niente. Ogni volta che ho a che fare con la morte e con i familiari credo di essere riuscito a comunicarlo bene, ma non ancora perfettamente. L'orgoglio nel voler fare questa cosa al meglio mi sembra giustificato.

         Il più duro sono i bambini morti. Non scorderò mai quella bambina araba che era caduta dalla finestra. I genitori l'avevano perso di vista alcuni momenti. Quando sono arrivato, la madre si rifiutava di togliersela dalle braccia. Era chiaro che la bambina fosse morta, quindi non la spinsi. I famigliari m'incolparono di aver lasciato morire la bambina per motivi razzisti.

         Eppure avevamo fatto di tutto. E' uno scaricarsi di sensi di colpa. Era perfettamente chiaro che la mamma non volle togliersi la bimba dalle braccia perchÈ le avrei dovuto dire che era morta. Per contro il padre non la degnò più di uno sguardo, era sconcertante.

         Qualche volta i parenti stretti hanno delle reazioni sbagliate in occasione di una morte improvvisa. Un uomo, di cui la moglie s'era affogata, parlava unicamente del fatto se poi avrebbe percepito la complementare alla rendita. Allora non puoi dire niente, anche se quest'uomo parlava come un libro, sempre con questa complementare. Non trovi la sua lunghezza d'onde. L'unica cosa che non si può fare è giudicare. Sono le circostanze.

         Non lo so se altri medici vanno ai funerali dei pazienti. Qualche volta, i familiari se lo aspettano. Può darsi che io non sia andato qualche volta quando lo si aspettava da me. Quando un accompagnamento alla morte era superficiale, allora niente ti ci spinge. Io mando sempre una corona. Ma anche ai funerali dei pazienti che mi stavano vicini partecipo solo se qualcosa non mi sembra compiuto. Quando ho già concluso, non ci vado.

         Trattare con la morte non può essere imparato in teoria. Probabilmente se ne parlava durante gli studi, nella psicologia medica, ma non me ne ricordo. Ma bisognerebbe trasmettere comunicare il tatto/la delicatezza per i familiari perchÈ vi si può sbagliare tantissimo. Quando qualcuno è morto si tratta di porgere le condoglianze ai familiari, di parlar poco e di accettare il loro lutto. Ho sentito la parola "condoglianze" la prima volta quando era morta mia nonna. Avevo sei anni e non sapevo cosa significasse. Me lo hanno spiegato e mi è sempre piaciuto. A tanta gente non piace, ma io la utilizzo volentieri. Condividere il dolore. Non c'è niente da dire. Non si può invadere chi soffre, ma neanche allontanarsi. C'è qualcosa come uno spazio neutro. Lì bisogna esserci, questo si deve affrontare.

 

Beatrice Schlag